CAP. 24

L'ALBERO DELLA CONOSCENZA DEL BENE E DEL MALE E L'ALBERO DELLA VITA DEL GIARDINO TERRESTRE:
IL LORO
REALE SIGNIFICATO

 

24.1 Pregi e limiti dei testi coordinati delle decrittazioni di F. Crombette.

Segretario: F.Crombette - nel suo precedente intervento - è ritornato, e lo dico con rispetto, su quello che pare essere un suo 'pensiero fisso', quello dell'Albero della Vita, inteso quale sedativo degli effetti afrodisiaci prodotti dai frutti dell'albero della Conoscenza del Bene e del Male.
Senza voler nulla togliere a quella che io considero come la straordinaria importanza della sua Opera, intesa nel senso più ampio indipendentemente dal suo lavoro sulla Genesi, non mi stancherò mai di ripetere che le traduzioni di F. Crombette non sono traduzioni dall'ebraico e non sono neppure traduzioni della lingua copta.
Le sue sono decrittazioni di singole radici monosillabiche copte individuate nell'ebraico antico, coordinando le quali egli ricava un testo di una certa coerenza.
Quindi - lo ripeto per estrema chiarezza - non siamo nemmeno di fronte ad una esegesi di carattere religioso.
Pregherei Monsieur Rodolphe Hertsens - che fu allievo di F. Crombette e poi Presidente operativo ed ora onorario del Cercle d'Études Historiques et Scientifiques (Ceshe) che ha lo scopo di approfondire e divulgare gli studi scientifici di Crombette - di volerci ripetere al riguardo quanto ebbe a precisarci alla fine della sessione conferenziale di ieri...

Rodolphe Hertsens: Resta da qualificare e valutare in maniera rigorosa il lavoro effettuato da F. Crombette, e ciò sia quanto alla proprietà dei termini quanto, ovviamente, al fondo dei problemi.
Il termine usato da Crombette: 'traduction par le copte', vale a dire 'traduzione dal copto', ha nuociuto  a Crombette.
Si é prestato infatti a creare confusione mettendo sullo stesso piano il suo lavoro e le versioni di traduzione abituali.
Una 'traduzione' consiste nella conversione in una seconda lingua del senso che un determinato testo possedeva in una prima. Ora  Crombette non traduce dall'ebraico: non avrebbe infatti avuto alcun bisogno del copto per farlo!
Egli non traduce però nemmeno dal copto, perché la serie dei monosillabi che egli ricostruisce non costituisce affatto ... una frase copta.
Egli non utilizza dunque la lingua copta ma le parole copte.  
Egli collega in seguito le parole copte in un 'testo coordinato' che ne rappresenta una sorta di 'commentario'.
Esiste un termine appropriato per definire questo genere di esercizio letterario, quello della 'parafrasi' che il 'Grand Larousse' definisce: 'Sviluppo esplicativo di un testo, traduzione amplificata di un testo'...
In particolare si chiamano 'parafrasi' delle Scritture i «targums», che ricostruiscono in aramaico la Bibbia incorporandovi dei liberi commenti.
Il lavoro di Crombette (quanto alla Genesi) ricorda queste 'traduzioni-commentari': vi è infatti senza dubbio una traduzione, poiché si perviene ad un testo in francese; ma egli vi aggiunge un commento tratto dal senso copto dei fonemi ebraici.
Questo commento è libero perché non obbedisce alle regole di una grammatica.
Essendo pertanto anche un libero commentario della Bibbia, la parafrasi di Crombette non può pretendere - di per se stessa - di avere alcuna autorità.
Per questo stesso fatto essa sfugge alle condizioni che sono state poste dal Magistero per le traduzioni ufficiali della Bibbia destinate alla preghiera, alla liturgia o alla catechesi.
D'altra parte, essendo un commentario, esso non pretende nemmeno di imporre il senso di una frase ebraica: non gli si può opporre il fatto che il senso letterale evidente, ricevuto attraverso e dalla Chiesa, è differente.
In Crombette il senso primo era d'altronde mantenuto ma largamente superato e chiarito.
E alla obiezione che questa sfumatura terminologica (e cioé la 'lettura' per 'parafrasi') potrebbe portare a squalificare l'opera di Crombette, la risposta è che al contrario essa gli restituisce tutto il suo vero peso  perché il suo valore si misura dall'interesse della sua lettura e dalla sagacità del suo autore...

Segretario: Queste precisazioni di Mr. Hertsens mi autorizzano ad esprimere con maggior convinzione il mio pensiero, senza incorrere nei confronti di F. Crombette in un delitto di 'lesa Maestà', ora che ci accingiamo a valutare il testo da lui propostoci poc'anzi.
Abbiamo dunque chiarito che la sua è una sorta di parafrasi mediante la quale - partendo da un determinato valore linguistico dato ai radicali monosillabici copti - egli li 'coordina' fra di loro costruendo un determinato testo.
Non dobbiamo nemmeno dimenticare che ciascun monosillabo copto poteva avere vari significati, per cui il loro senso complessivo poteva cambiare a seconda del singolo significato che Crombette decideva di attribuirgli.
E' ovvio che Crombette cercasse comunque di scegliere il significato che gli sembrasse più aderente e che non snaturasse  spiritualmente e dottrinalmente il testo biblico.
Ho anche più volte detto che - pur dandogli atto non solo della sua scienza ma anche della sua genialità - dobbiamo ben guardarci dal considerarlo 'infallibile'.
Le convinzioni interiori possono ad esempio giocare qualche volta degli scherzi e farci analizzare un problema partendo da un'ottica precostituita piuttosto che da un'altra.
Anche gli storici - nella valutazione degli episodi - non sono immuni da quelle che sono le loro idee in un certo senso preconcette.
Lo stesso dicasi per gli scienziati.
Tuttavia, mentre nelle questioni scientifiche trattate da F. Crombette è relativamente facile trovare dei riscontri oggettivi a quanto egli afferma, ciò diventa impossibile quando cominciamo a parlare di fatti spirituali non assoggettabili ad alcuna prova sperimentale.
Qui si impone dunque una doppia prudenza.
Convinto di un'idea, Crombette la difende poi anche con convinzione.
Lo abbiamo già visto nel caso precedentemente discusso del presunto ermafroditismo di Adamo, dove il suo pensiero 'categorico' da lui più volte 'ribadito' era stato in qualche modo 'riveduto e corretto' da Padre René Mandra e dallo stesso Editore delle sue opere.
Ecco perché dobbiamo usare buon senso e prudenza: per non smarrire il senso delle proporzioni e della verità delle cose.
Non voglio qui dire a priori che non sono del tutto d'accordo sulle sue conclusioni di prima, ma solo che dobbiamo ora analizzarle attentamente prima di decidere se concedere loro la nostra fiducia.
Riprendendo dunque in esame le sue deduzioni, mi sembra che queste si possano così sintetizzare:
1) Il senso logico complessivo della sua 'parafrasi' sul Peccato originale sembra a prima vista reggere. Non si può nemmeno nascondere che il dialogo fra Eva e Satana appare molto più 'dettagliato' ed 'intrigante' di quello di Genesi.
2) Dal punto di vista dottrinario Crombette registra la realtà del Peccato originale, riconducendolo ad un Peccato di grande disubbidienza, orgoglio e ribellione che meritò la riprovazione da parte di Dio.
3) Il Tentatore non è un comune serpente bensì Satana, il quale per invidia dell'uomo ed in odio a Dio le sibila un pensiero per  cercare di convincerla e compromettere - attraverso la Colpa sua e di Adamo - le speranze di salvezza eterna dell'intera Umanità che da loro sarebbe discesa.
Questo quanto alla 'sostanza' che potremmo in un certo senso definire 'dottrinaria'.

 

24.2 I due alberi: realtà, prova ed allegoria.

Veniamo ora ai dettagli.
Satana - in agguato  nel giardino - 'imita' la voce di Dio, e questo credo che allegoricamente significhi semplicemente il 'parlare telepaticamente' ad Eva, come soleva fare Dio.
Mentre la Genesi nel suo testo ufficiale parla di un divieto in senso assoluto, pena la morte, a cogliere il frutto dell'Albero della conoscenza del Bene e del Male, nella interpretazione di Crombette il divieto avrebbe avuto un termine quando Dio stesso in un giorno lontano lo avesse ritenuto opportuno: Crombette parte infatti dal presupposto che il frutto dell'Albero fosse in realtà un afrodisiaco e che Adamo non avrebbe dovuto mangiarne prima del tempo giusto per la riproduzione.
La tentazione da parte di Satana consisterebbe nel suggerire ad Eva che mangiando il frutto ella avrebbe acquisito da subito un potere di dominio sugli spiriti, in pratica volersi fare orgogliosamente simile a Dio.
Adamo, non pago di avere assaggiato il primo frutto, vuole allora assaggiare il frutto del secondo albero - quello che allunga la vita, che peraltro non era un frutto proibito - ma senza apparenti risultati pratici.
Ci troveremmo dunque - sempre secondo Crombette - di fronte  a due alberi che producono frutti con proprietà medicinali particolari, il primo afrodisiache ed il secondo probabilmente energetiche ma anche 'sedative' rispetto agli effetti del frutto del primo, e cioé anafrodisiache.
Da parte mia devo ancora una volta ribadire che questa interpretazione a sfondo eminentemente sessuale mi lascia del tutto perplesso...

Voce:
Tutto in Adamo ed intorno ad Adamo era stato fatto perché egli godesse una felicità completa, sana e santa, e la delizia, ossia l'Eden, non era soltanto intorno ma anche dentro all'Adamo.
Lo circondava il giardino pieno di bellezze vegetali, animali ed equoree, ma entro di lui un giardino di bellezze spirituali fioriva con virtù d'ogni genere, pronte a maturarsi in frutti di santità perfetta; e vi era l'Albero della scienza adatto al suo stato, e quello della vita soprannaturale: la Grazia; né vi mancavano le acque preziose della divina fonte che si divideva in quattro rami e irrorava di sempre nuova onda le virtù dell'uomo, onde crescessero giganti, a farlo sempre più specchio fedele di Dio.
Come creatura materiale godeva di ciò che vedeva: la bellezza di un mondo vergine, testé uscito dal volere di Dio; godeva di ciò che poteva: la sua signoria sulle creature inferiori.
Tutto era stato messo da Dio al servizio dell'uomo: dal sole all'insetto, perché tutto gli fosse delizia.
Come creatura soprannaturale godeva - un'estasi ragionante e soavissima - della comprensione dell'Essenza di Dio: l'Amore; dei rapporti d'amore fra l'Immenso che si donava e la creatura che lo amava adorando.
La Genesi adombra questa facoltà dell'uomo e questo comunicarsi a lui di Dio, nella frase: 'avendo udito la voce di Dio che passeggiava nell'Eden nel fresco della sera'.
Per quanto il Padre avesse dato ai figli adottivi una scienza proporzionata al loro stato, pure ancora li ammaestrava.
Perché infinito é l'amore di Dio, e dopo aver dato anela nuovamente a dare, e tanto più dà quanto più la creatura gli é figlia. Dio si dà sempre a chi a Lui si dà generosamente.
Quando, dunque, l'uomo si svegliò e vide la donna sua simile, sentì che la sua felicità di creatura era completa avendo il tutto umano e avendo il Tutto soprumano, essendosi l'Amore dato all'amor dell'uomo.
Unica limitazione messa da Dio all'immenso possedere dell'uomo era il divieto di cogliere i frutti dell'Albero della Scienza del bene e del male.
 Raccolto inutile, ingiustificato, sarebbe stato questo, avendo l'uomo già quella scienza che gli era necessaria, e una misura superiore a quella stabilita da Dio non poteva che causare danno.
Considerate: Dio non proibisce di cogliere i frutti dell'Albero della Vita, perché di essi l'uomo aveva natural bisogno per vivere una esistenza sana e longeva, sino a che un più vivo desiderio divino di svelarsi totalmente al figlio di adozione non facesse pronunciare a Dio il: 'Figlio, ascendi alla mia dimora e inabissati nel tuo Dio', la chiamata, senza sofferenza di morte, al celeste Paradiso.
L'Albero della Vita che si incontra al principio del Libro della Grande Rivelazione (Genesi: Cap. II, v. 9 e Cap. II, v. 22)e che si ritrova nuovamente alla fine del Libro della Grande Rivelazione: La Bibbia (Apocalisse di Giovanni, Cap. XXII, v. 2 e v. 14), è figura del Verbo incarnato - il cui frutto, la Redenzione, pende dal legno della croce - di quel Gesù che è Pane di Vita, fonte d'Acqua Viva, Grazia, e che vi ha reso la Vita con la sua Morte, e sempre potete mangiare e bere di Lui, per vivere la vita dei giusti e giungere alla vita eterna.
Dio non proibisce ad Adamo di cogliere i frutti dell'Albero della Vita, ma vieta di cogliere quelli, inutili, dell'Albero della Scienza. Perché un eccesso di sapere avrebbe svegliato la superbia nell'uomo, che si sarebbe creduto uguale a Dio per la nuova scienza acquisita e stoltamente creduto capace di poterla possedere senza pericolo, con il conseguente sorgere di un abusivo diritto di auto-giudizio delle azioni proprie, e dell'agire, di conseguenza, calpestando ogni dovere di filiale ubbidienza verso il suo Creatore - dato che ormai gli era simile in scienza - del suo Creatore che gli aveva amorosamente indicato il lecito e l'illecito, direttamente o per grazia e scienza infuse.
La misura data da Dio é sempre giusta.
Chi vuole più di quanto Dio gli ha dato, é concupiscente, imprudente, irriverente. Offende l'amore.
Chi prende abusivamente é un ladro e un violento. Offende l'amore.
Chi vuol agire indipendentemente da ogni ossequio alla Legge soprannaturale e naturale é un ribelle. Offende l'amore. Davanti al comando divino i Progenitori dovevano ubbidire, senza porsi dei perché che sono sempre il naufragio dell'amore, della fede, della speranza.
Quando Dio ordina, o agisce, si deve obbedire e fare la sua volontà, senza chieder perché ordina o agisce in quel dato modo. Ogni sua azione é buona, anche se non sembra tale alla creatura limitata nel suo sapere.
Perché non dovevano andare a quell'albero, cogliere quei frutti, mangiare di quei frutti? Inutile saperlo. Ubbidire é utile, e non altro. E accontentarsi del molto avuto. L'ubbidienza é amore e rispetto, ed é misura di amore e rispetto.
Tanto più si ama e si venera una persona e tanto più la si ubbidisce.
Ora qui, essendo Colui che ordinava Dio - l'infinitamente Grande, il Buono, il Benefattore munifico dell'uomo - l'uomo, e per rispetto e per riconoscenza, doveva dare a Dio non 'molto' amore, ma 'tutto' l'amore adorante di cui era capace, e perciò tutta l'ubbedienza, senza analizzare le ragioni del divino divieto.
Le discussioni presuppongono un autogiudizio e una critica all'ordine od azione altrui. Giudicare é difficile cosa e raramente il giudizio é giusto; ma non lo é mai quando giudica inutile, errato, o ingiusto, un ordine divino.
L'uomo doveva ubbidire.
La prova di questa sua capacità, che è misura di amore e rispetto, era nel modo con cui avrebbe o non avrebbe saputo obbedire.

Segretario: Mi sembra che questo intervento della 'Voce' ponga fine a tante considerazioni. Procediamo con ordine...
Nel giardino dell'Eden c'erano effettivamente - fra i tanti alberi con ogni ben di Dio - l'Albero della Scienza e quello della Vita.
L'Albero della Scienza era un albero reale con dei frutti reali che non avevano alcunché di afrodisiaco ma rappresentando simbolicamente agli occhi di Adamo ed Eva dei frutti  capaci di dare la Conoscenza. L'ottemperanza o meno al comando divino sarebbe dunque venuto ad assumere per essi, di fronte a Dio, un valore di Prova.
Dio era stato munifico con gli uomini e questi dovevano sentire il dovere di riconoscenza e - ubbidendogli - ricambiare nella misura della loro capacità l'amore di Dio.
L'ubbidienza è prova di amore e sarebbe stata anche Prova del loro meritare i beni del Paradiso terrestre e soprattutto della Vita eterna.
Vi era però nel giardino anche l'Albero della Vita ed i suoi frutti avevano veramente delle proprietà energetiche naturali.
Come ha anche decrittato Crombette, essi erano suscettibili - come dice la Voce - di prolungare lo stato di salute e la vita dell'uomo, già creato peraltro perfetto, fino al momento in cui Dio - senza alcuna sofferenza di morte - avesse deciso che lui 'trapassasse', come abbiamo visto nel caso della Assunzione della Madonna, dal mondo terreno a quello 'celeste'.
L'albero della Vita, tuttavia, aveva anche un valore allegorico.
Il suo 'frutto' era infatti 'figura' del futuro Verbo incarnato che un giorno sarebbe stato pendente dal legno della Croce e che con i suoi insegnamenti ed il suo Sacrificio avrebbe consentito all'Umanità dei giusti di giungere al Paradiso eterno che altrimenti sarebbe stato loro preclusa.
Ancora due annotazioni prima di terminare.
Avevamo discusso su cosa fosse in realtà successo ad Adamo nel momento in cui venne creata Eva.
La Genesi dice che Dio fece scendere un 'torpore' nell'uomo, che si addormentò, e gli tolse una 'costola' dalla quale formò Eva. Sul significato del termine 'costola' avevamo a lungo discusso finché la 'Luce' ci aveva detto che - a forza di rimuginarci sopra - la nostra immaginazione aveva superato la realtà.
La 'costola' di Adamo - in quanto 'carne' tratta dalla sua 'carne' a partire dalla quale sarebbe stata formata Eva - avrebbe dunque avuto un valore puramente allegorico per fare intendere che Adamo ed Eva, sposo e sposa, avrebbero dovuto essere uniti nello spirito e nella carne.
Costola simbolica dunque, perché Dio - che aveva creato Adamo e tutta la vita animale e vegetale dal nulla - non aveva alcun bisogno di procedimenti macchinosi per creare Eva a partire da una costola tolta ad Adamo.
La Voce ha spiegato però poc'anzi che Adamo vide Eva, la donna, dopo che si fu svegliato dal sonno.
Possiamo quindi pensare - poiché il buon giorno si vede dal mattino - che Adamo si sia ritrovato accanto il gradito dono e la sorpresa di Eva al suo risveglio dal sonno notturno.
Ad un certo punto, la 'Voce' ha poi anche spiegato che Adamo, come creatura materiale, godeva di tutto ciò che lo circondava, e cioé 'la bellezza di un mondo vergine testé uscito dal volere di Dio...'.
Bene, la 'Voce' - come certamente avrete notato - usa sempre un linguaggio accurato e termini semplici ma appropriati e - se accenna ad un mondo vergine 'testé uscito' dalla volontà divina - ciò non può secondo me che significare una allusione implicita ad una creazione della Terra - prima di Adamo - relativamente recente e non già fatta risalire a miliardi e miliardi di anni fa come sostengono - senza alcuna reale e incontestabile prova realmente scientifica - evoluzionisti e geologi 'attualisti'.


1 R. Hertsens: 'Reponses aux objections contre la 'Revelation de la Revelation' et Fernand Crombette - Science & Foi - N° 20 del 1991, pag. 21. (Trattasi di una traduzione libera dell'autore di parte del testo originale) G. Landolina: vedi anche   'La Genesi biblica fra scienza e fede' - Vol. II, Cap. 24.3 - Ed. Segno e suo sito internet già citato

2 Maria Valtorta: 'Lezioni sull'Epistola di Paolo ai Romani' - 'Dettato' 21/28.5.1948, pagg. 134/135 (Commento 'Ai Romani Cap.VII, v.14-25) - Centro Editoriale Valtortiano - Isola del Liri (FR)

3 (Genesi: Cap. II, v. 9 e Cap. II, v. 22)