(Il Vangelo secondo Giovanni – La Sacra Bibbia – Cap. 11, 1-16 – Edizioni Paoline, 1968)
(M.V.: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’ – Cap. 547 – Centro Ed. Valtortiano)

12. Era malato un certo Lazzaro di Betania...

 

Gv 11, 1-16:

Era malato un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta, sua sorella.
Maria era quella che unse d’unguento profumato il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli: s’era infermato suo fratello, Lazzaro.
Le sorelle di lui mandarono a dirgli: «Signore, colui che tu ami è ammalato».
Udito ciò Gesù rispose:«Questa non è malattia da morirne, ma è per la gloria di Dio, affinchè per essa il Figlio di Dio sia glorificato».
Gesù amava Marta, Maria, sua sorella, e Lazzaro.
Quand’ebbe sentito che era infermo, si trattenne ancora due giorni nel luogo dov’era.
Poi disse ai suoi discepoli: «Ritorniamo in Giudea».
«Maestro, gli fecero osservare i discepoli, or ora i Giudei cercavano di lapidarti, e tu ci vuoi tornare?».
Gesù rispose:«Non è forse di dodici ore la giornata? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perchè vede la luce di questo mondo: ma se uno cammina di notte, inciampa, perchè la luce non è in lui».
Così parlò, poi soggiunse: «Lazzaro, il nostro amico, dorme, ma vado a svegliarlo».
Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se dorme, guarirà!».
Gesù aveva parlato della morte di lui, ma essi credevano che intendesse il riposo del sonno.
Allora Gesù disse apertamente: «Lazzaro è morto, e sono contento per voi di non essere stato là, affinchè crediate. Ma andiamo da lui».
Disse allora Tommaso, chiamato Didimo, agli altri discepoli: «Andiamo anche noi, per morire con lui».


12.1 Un periodo storico davvero turbolento

‘Era malato un certo Lazzaro di Betania...’
Comincia così, in sordina, questo racconto di Giovanni.

 ‘Era malato un certo Lazzaro di Betania...’
Mi sembra l’inizio del racconto di una ‘favola’ che il quasi centenario Giovanni – con i capelli e la barba bianchi - narra ai suoi ‘nipotini’.
Dicono infatti gli ‘esperti’ che egli abbia scritto il suo Vangelo verso il 95-96 d.C., ad Efeso, nell’odierna Turchia..
In effetti – quando Giovanni dovette scrivere quel suo Vangelo – erano passati una sessantina d’anni da questo avvenimento che ora racconta e sfido anche voi a non vedere i vostri ricordi perdersi un pochino fra le nebbie del passato.
Dicono però che le persone anziane – che sovente perdono la memoria ‘a breve’-  la conservino spesso poderosa per i fatti a lunga distanza, come sembra proprio far Giovanni che ricorda tutto, anche perchè poi non dobbiamo dimenticare il suo ‘Jolly’: lo Spirito Santo, che gli faceva ricordare  quanto era necessario.
‘Un certo Lazzaro...’.
Giovanni racconta il Vangelo per i futuri. Gesù era ormai asceso al Cielo da una sessantina d’anni, Pietro e Paolo avevano già fatto la loro parte da una trentina, predicando e pagando con la vita , gli altri apostoli – chi qua chi là – non avevano voluto essere da meno, come il loro Maestro.
Giovanni è l’unico sopravvissuto.
Forse perchè era ‘quel discepolo che Gesù amava tanto’?
Forse, ma preferisco pensare di no. Forse la Chiesa nascente aveva ancora bisogno di quel santo notevole, il più puro degli apostoli. Forse Giovanni avrebbe dovuto completare – con una meditazione più profonda e con vista d’aquila - gli altri tre vangeli. Forse avrebbe dovuto lasciare all’Umanità l’Apocalisse che si sarebbe accinto a scrivere quasi centenario.
Intanto, in quel sessantennio, dagli anni 40 al 96 d.C., erano successe un sacco di cose.
A Roma, nel 37 d.c.,  l’imperatore Tiberio era morto soffocato.
Gli era succeduto Caligola, che però nel 41 era stato assassinato e rimpiazzato da Claudio.
L’ex fariseo Paolo di Tarso – disarcionato da cavallo da Gesù che gli era apparso mentre era in cammino per andare ad arrestare dei cristiani – aveva già da qualche anno iniziato la sua predicazione in Asia minore e Grecia, con i suoi numerosi viaggi apostolici.
Giacomo il Maggiore, cioè Giacomo di Zebedeo, fratello di Giovanni, era stato decapitato sotto Erode Agrippa, nel 44 d.c..
Gli altri apostoli (a parte Giacomo d’Alfeo, detto poi Giacomo il Minore, cugino di Gesù, che sarebbe rimasto a Gerusalemme per esservi martirizzato vescovo nel 62 d.c.) si erano sparpagliati un pò ovunque per sfuggire alle persecuzioni in patria dei Giudei e per diffondere meglio il Cristianesimo fra i Giudei della ‘diaspora’ (cioè quelle comunità israelitiche che vivevano fuori della Palestina nei maggiori centri del mondo antico)  ma soprattutto fra i ‘gentili’, come aveva voluto e predetto Gesù.
Nel 49 era stato emanato l’editto di Claudio, che aveva espulso i Giudei da Roma.
Anche Claudio viene assassinato, col veleno. Ci aveva pensato la moglie Agrippina, madre di Nerone.
Nerone, gli succede come imperatore all’età di 17 anni, e subito dopo, per tener vive le tradizioni famigliari, si sbarazza del più giovane fratellastro, Britannico, avvelenato.
Intanto Paolo – fra un viaggio ad Efeso ed uno a Corinto - scrive un sacco di lettere: ai Corinzi, ai Galati, ai Filippesi, senza trascurare i Romani, nella cui città sperava sempre di poter presto andare.
E invece va a Gerusalemme (58 d.C.) dove finisce dentro, arrestato dai sacerdoti che – illividiti di rabbia perchè lo consideravano un traditore e per di più convertiva un sacco di Giudei al Cristianesimo – lo volevano far fuori.
Ma il ‘diritto di morte’ spettava al Procuratore della Giudea, Porcio Festo, che soggiornava a Cesarea.
Paolo vi viene spedito per giudizio e vi rimane due anni in prigione, senza che i Giudei abbiano potuto esibire il benchè minimo straccio di prova legale contro Paolo.
Paolo verrebbe liberato, se non commettesse l’errore – per timore di venire condannato per compiacere i Giudei – di ‘appellarsi’ (quale ‘cittadino romano’, come lui era) alla giustizia superiore dell’Imperatore, che a quell’epoca era Nerone, figuriamoci!
Al Procuratore Porcio Festo – dopo due anni di carcerazione preventiva - non par vero di togliersi la patata bollente (Paolo era già un personaggio importante, e durante la traduzione in catene da Gerusalemme a Cesarea era stato scortato da centinaia di legionari, tanto per parare gli ‘scherzi’ dei Giudei) e lo spedisce a Roma, da Nerone, il quale aveva intanto fatto assassinare sua madre Agrippina.
Non c’è che dire: una bella famigliola!
Paolo rimane due anni a Roma in carcere in attesa di giudizio, o meglio dicono fosse in realtà un ‘domicilio coatto’: poteva ricevere, parlare, scrivere, farsi da mangiare.
Al giorno d’oggi invece si può anche uscire: lo fanno tutti.
Paolo verrà poi liberato per ‘mancanza di prove’.
Non so perché tutti esaltino il ‘diritto romano’. Mi sembra come il nostro. Io credevo che certe cose succedessero solo ai nostri tempi. E invece no. Anzi adesso capisco: il nostro diritto discende da quello romano.
Nel 64 d.C. a Roma c’è il famoso incendio. Nerone si voleva liberare delle baraccopoli nelle quali vivevano tutti quelli del ‘terzo mondo’ di allora che vi si recavano in cerca di fortuna. E poi dà la colpa ai giudei, o meglio ai cristiani, che politicamente davano fastidio, anche perché – lui - non lo volevano proprio riconoscere come Dio.
Cominciano le persecuzioni romane e Pietro e Paolo ne faranno le spese. Giovanni invece è  ‘all’estero’ e si salva.
Intanto Nerone decide di far fuori Seneca e Burro. Ma Seneca, piuttosto che morire anche lui avvelenato, preferisce suicidarsi lui stesso. Col veleno?
I due erano stati i ‘maestri’ di Nerone nell’adolescenza e poi anche dopo.
Essi erano stati troppo saggi per accettare di seguirlo nei suoi misfatti ma non abbastanza furbi da capire che sarebbe stato meglio cambiar aria, finchè erano in tempo.
Nel 66 d.C. Vespasiano – che è ancora un generale - viene mandato da Nerone in Palestina per sottomettere i Giudei che avevano l’inclinazione a ribellarsi. Avrà la mano pesante.
A Roma, Paolo – che vi era poi ritornato nonostante le persecuzioni – viene arrestato nuovamente e condannato a morte: esecuzione nella località che oggi chiamiamo delle ‘Tre fontane’, dove la Tradizione narra che sgorgarono tre fonti d’acqua nei punti in declivio in cui la sua testa aveva rimbalzato tre volte, decapitata.
Galba viene proclamato Imperatore dagli eserciti di Gallia e di Spagna (in quello che noi oggi chiamiamo ‘colpo di stato’) e allora Nerone – che probabilmente temeva di essere processato – si suicida.
Ecco, ai nostri tempi, questa abitudine l’hanno persa i nostri ‘politici’: non si suicidano mai.
Galba – a dimostrazione che la riconoscenza non esiste – viene però massacrato dai pretoriani di Roma.
Si susseguono in rapida successione un altro paio di imperatori.
Poi finalmente il generale Vespasiano, passato però alla storia non tanto per i suoi meriti di imperatore quanto per certe sue famose opere ‘pubbliche’, viene ‘acclamato’ dagli eserciti d’Oriente e del Danubio. Vitellio è battuto e ucciso in Italia e con Vespasiano si chiude finalmente l’era dei pronunciamenti.
Siamo più o meno nel 69 d.C., quasi 2000 anni fa, e i Vangeli di Matteo e Luca sono già stati scritti, come gli Atti degli Apostoli.
Nel 70 d.C. il generale Tito dopo anni di assedio conquista Gerusalemme e – per essere ben sicuro di non dover avere più noie da quei giudei ribelli - fa un vero e proprio massacro, quello predetto una quarantina d’anni prima da Gesù, nei giorni precedenti la Passione, la rade al suolo, compresi i luoghi santi, anzi soprattutto i luoghi santi dove religione e nazionalismo si fondevano.
I Capi dei Giudei avevano infatti confidato tutto nel fatto che sarebbe arrivato il Messia di guerra che si attendevano e che quindi alla fine – contro i romani - ‘avrebbero vinto’ loro: in realtà fu una distruzione tremenda, dopo la quale arrivò da Roma il bando politico a non rimettervi più piede, bando durato di fatto - con inimmaginabili conseguenze di dolore - fino a questo secolo.
Passano pochi anni ancora e Flavio Giuseppe, un giudeo ‘collaborazionista’ dei romani, scrive la famosa ‘Guerra giudaica’ dalla quale abbiamo appreso un sacco di cose di quei tempi e anche dei primi cristiani.
A Napoli c’è l’eruzione del Vesuvio, che seppellisce Pompei ed Ercolano.
A Roma, nel 79, muore Vespasiano e gli succede come imperatore l’ex generale Tito.
Nell’81 muore a sua volta Tito e gli succede Domiziano.
Viene completato il Colosseo, che viene utilizzato anche per i cristiani, coi quali Domiziano non scherzava.
Ma nel 95 (circa) Giovanni – perseguitato per la sua Fede - scrive l’Apocalisse e Domiziano – nel 96 - viene pugnalato.
Insomma, avrete capito che io come ‘storico’ sono alquanto approssimativo, oltre che poco ‘serio’, ma certo avrete anche compreso che Giovanni aveva vissuto tempi ben difficili: gli apostoli suoi compagni erano da tempo tutti morti, di morte violenta, peggio degli imperatori, e l’essere scampato deve essere stato per lui un altro miracolo del Signore.
Gente che ricordasse personalmente Gesù non ce ne doveva essere più, in vita, e figuriamoci – con Gerusalemme distrutta insieme ai villaggi dei  dintorni – se ad Efeso, in Turchia, qualcuno poteva mai sapere – nel 96 d.c. - chi fosse stato Lazzaro e dove fosse il villaggio di Betania.


12.2 Ma sì...! Andiamo anche noi. Così moriremo con lui e non se ne parlerà più.

Dunque, racconta ora Giovanni evangelista, ‘Era malato un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta, sua sorella’.
Lazzaro ‘s’era infermato’ e le sorelle gli mandano a dire, a Gesù: ‘Signore, colui che tu ami è ammalato’.
Non so se avete capito la ‘finezza’. Non gli chiedono: ‘Gesù, vieni di corsa, perchè altrimenti Lazzaro muore. Ne hai salvati tanti..., e proprio ora che muore Lazzaro tu non ti fai più vedere? Hai sempre detto che lo amavi tanto...’.
No. Loro sono delle signore dell’alta società e le cose le sanno dire con garbo: ‘Signore, colui che tu ami è ammalato!’.
E Gesù? Gesù se la prende calma, perchè risponde filosoficamente: ‘Questa non è malattia da morirne, ma è per la gloria di Dio, affinchè per essa il Figlio di Dio sia glorificato!’.
Anzi a ben pensarci se la prende non ‘calma’, ma ‘comoda’, perchè nonostante le brutte notizie sul suo amico, se ne sta lì ancora per un paio di giorni, forse perchè non era ‘malattia da morirne’.
Finchè non dice ai discepoli: ‘Adesso è ora di tornare in Giudea!’.
‘Tornare in Giudea? Ma siamo impazziti?E’ passato poco che han cercato di lapidarci e tu ci vuoi tornare?’
Non è che avessero tutti i torti. Quel tumulto scoppiato l’ultima volta al Tempio doveva fargli venire la pelle d’oca al solo ricordo.
Rifletto un momento sullo scambio di battute fra Gesù e gli apostoli e – indipendentente dallla ben nota laconicità di Giovanni - mi sembra di capire che la loro reazione alle decisione di Gesù di tornare a Gerusalemme, non dovesse essere stata delle più tranquille.
Certo, era in ballo anche la loro ‘pelle’, ma il fatto è che essi – come vi sarete resi conto leggendo la Valtorta - erano  ancora molto ‘umani’, e con Gesù qualche volta si prendevano qualche confidenza di troppo, come me, perchè a Gesù gli volevano molto bene ma lo consideravano – più che un Dio – soprattutto un ‘Dio-amico’. E invece di adorarlo in ginocchio ai suoi piedi, o davanti all’Eucarestia come si dovrebbe fare adesso, gli mettevano un braccio sulla spalla, magari lo trattavano affettuosamente e premurosamente, salvo rimanere scioccati di fronte ai miracoli, convincersi che lui era proprio Dio ma senza riuscire a ‘metabolizzare’ in realtà quel concetto e trarne le conseguenze.
Ho paura che il giorno in cui – io spero - conosceremo Iddio, rimarremo atterriti – di fronte alla sua Grandezza ed alla illuminazione che riceveremo dalla sua Luce – nel comprendere le libertà e le ‘negligenze’ che ci siamo permessi nei suoi confronti, per non parlare delle colpe vere e proprie.
L’atteggiamento degli apostoli – lo vedremo nel prossimo volume, se vorrete conoscere il seguito – cambierà completamente dopo la risurrezione, quando essi – rimasti dubbiosi dopo la sua ‘sparizione’ dal Sepolcro - lo vedranno apparire nel Cenacolo col suo corpo glorificato, passare attraverso solide mura come fosse un fantasma, materializzarsi di fronte a loro, ben solido, farsi toccare le piaghe, mangiare con loro, smaterializzarsi nuovamente, ricomparire contemporaneamente a vari discepoli in punti lontanissimi fra di loro, stare ancora con loro una quarantina di giorni per ascendere infine nella gloria al Cielo con il suo corpo glorificato.
Comunque Gesù, sempre filosofo, risponde alle ‘contestazioni’: ‘Non è forse solo di dodici ore la giornata? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perchè vede la luce di questo mondo: ma se uno cammina di notte, inciampa, perchè la luce non è in lui’.
Cosa significa tutto questo discorso? Semplice, è la solita metafora per capire la quale ci vuole l’illuminazione, degli ‘esegeti’: ‘Quando si percorre una strada bisogna sfruttare interamente la luce finché è giorno, per vedere dove si mettono i piedi, per non inciampare e percorrere più cammino possibile verso la meta prima che venga il buio. La mia è una strada spirituale e continuerò ad avere la Luce e l’appoggio della Potenza di Dio Padre fino al momento prefissato, ma poi verrà la Notte, quando il momento della Passione sarà giunto, quando il Padre ritirerà il suo appoggio e la sua Luce, ed io mi ritroverò solo in balia delle Tenebre, cioè di Satana perchè sarà quello il suo momento, il momento del suo ‘trionfo’, il momento della mia Passione, il momento in cui  anch’egli - come i Giudei - mi ‘innalzerà’ su una croce convinto di ‘abbassarmi’ davanti agli occhi del mondo, ma dove invece sarà finalmente manifesto a tutti il Trionfo di Dio, del Verbo, che in quel momento otterrà con il suo Sangue la Redenzione, la Liberazione dell’Umanità - passata, presente e futura – dalla Colpa e dalle sue conseguenze, con l’autorizzazione del Padre a riaprire per essa le porte del Cielo per tutti gli uomini di buona volontà’.
Guardate che non è che avesse detto proprio queste cose, perchè non è che dicesse sempre tutto, Gesù.
Ma le deve aver pensate.
‘Il nostro amico ‘dorme’, ma vado a ‘svegliarlo’’, continua Gesù continuando a parlare di Lazzaro.
Non c’è che dire, parla proprio metaforico, e le ‘metafore’non solo non le capivano i giudei ma neanche gli apostoli.
E quelli infatti rispondono:  ‘Signore, se dorme, guarirà!’
Logico, no?
E allora Gesù, apertamente: ‘Ragazzi, ve lo devo proprio dire: Lazzaro è morto e sono contento per voi di non esser stato là affinchè crediate...!’.
Ah! Eccolo qua. Non se l’era presa con calma, non se l’era presa ‘comoda’. Egli aveva ben sofferto per l’agonia dell’amico, per il dolore delle sorelle al suo capezzale, ma aveva tenuto duro, aveva tenuto duro perchè voleva confermare nella fede gli apostoli.
A Cana – dove aveva trasformato l’acqua in vino – Gesù si era lasciato convincere a far miracolo da sua Mamma anche affinchè i primi discepoli – di fronte a quel miracolo portentoso di cambiamento di una ‘sostanza’ in un’altra, buona per giunta – potessero credere in lui come Messia ed accettare meglio di seguirlo nella missione.
Ora Gesù  - come si capisce chiaramente dalle sue parole - intende compiere il miracolo della portentosa risurrezione di Lazzaro per convincerli che Egli non solo è ‘Messia’, ma – come ormai da molti mesi andava predicando chiaramente – che è veramente Figlio di Dio.
Solo una fede ferma avrebbe potuto infatti dare a quegli apostoli molto umani la forza e la determinazione di andare avanti e diffondere il cristianesimo contro qualsiasi difficoltà. Solo una fede rocciosa avrebbe permesso loro di affrontare cantando il martirio. Solo la coscienza incrollabile della possibilità - per Dio – di risuscitare un corpo in disfacimento, morto da quattro giorni come quello di Lazzaro, o di risuscitare se stesso, come avrebbe fatto poi Gesù, poteva convincerli - fino ad accettare tutti il martirio - che Gesù era veramente  Figlio di Dio, convincerli che il corpo ‘glorificato’ era una realtà, e che la risurrezione dei corpi (glorificati)  degli uomini alla fine del mondo era veramente possibile.
Ma Tommaso era sempre Tommaso, e soprattutto tutte queste cose non le aveva ancora sperimentate.
Quindi non è con l’entusiasmo dell’aspirante ‘martire’ ma è con una bella dose di scetticismo, paura ed una leggera punta polemica che Tommaso – scrollando il capo e rivolgendosi non a Gesù ma agli altri discepoli, come osserva Giovanni – deve aver ribattuto quel ‘Andiamo anche noi, per morire con lui’, che forse dovrebbe intendersi: ‘Ma sì...! Andiamo anche noi. Così moriremo con lui, e non se ne parlerà più!’.


12.3 Ma quando ha detto: ‘E le voglio sane perchè voglio farmi ricco e sbalordire il paese per la dote che farò a Ester e per la casa che mi costruirò...’, allora gli ho parlato proprio fra tramontana e scirocco...!

Bene, ora non rimane che andare a vedere come l’ha visto la Valtorta:

547.  Gesù decide di andare a Betania.

24 dicembre 1946.
La luce non è già più luce nell'orticello della casa di Salomon, e le piante, i contorni delle case oltre la via, e specie il fondo della via stessa, là dove la stradetta si annulla nella boschina del fiume, perdono sempre più i loro contorni netti, unificandosi in un'unica linea di ombre più o meno chiare, più o meno scure, nell'ombra della sera che cresce sempre più.  Più che colori, le cose sparse sulla terra sono suoni, ormai.  Voci di bimbi dalle case, richiami di madri, incitamenti di uomini alle pecore o all'asinello, qualche ultimo cigolare di carrucole nei pozzi, fruscio di foglie nel vento della sera, urti secchi, come di legnetti urtati fra loro, dei nocchi sparsi per la boschina.  In alto il primo palpitare delle stelle, ancora incerto perché permane un ricordo di luce e perché la prima fosforescenza della luna comincia già a diffondersi nel cielo.
«Il resto lo direte domani.  Ora basta.  E’ notte.  E ognuno vada a casa.  La pace a voi.  La pace a voi.  Sì... Sì... Domani.  Eh?  Che dici?  Hai uno scrupolo?  Dormici sopra sino a domani e poi, se non ti è passato, verrai.  Ci mancherebbe altro!  Anche gli scrupoli per affaticarlo di più!  Anche gli smaniosi di guadagno!  E le suocere che vogliono far rinsavire le spose, e le spose che vogliono far meno acide le suocere, e fra queste e quelle meriterebbero d'aver mozza la lingua tutte e due.  E che c'è d'altro?  Tu? Che dici?  Oh! questo sì, poverino!  Giovanni, conduci questo bambino dal Maestro.  Ha la mamma malata e lo manda a dire a Gesù che preghi per lei.  Poverino! E’ rimasto indietro perché piccino.  E viene da lontano.  Come farà a tornare a casa?  Ehi! voi tutti!  Invece di stare qui per godere di Lui, non potreste mettere in pratica ciò che il Maestro vi ha detto: di aiutarsi l'un l'altro, e i più forti di dare aiuto ai più deboli?  Su!  Chi accompagna a casa il fanciullo?  Potrebbe, Dio non voglia, trovar morta la madre... Che almeno la veda.  Asini ce ne avete... E’ notte?  E cosa c'è di più bello della notte?  Io ho lavorato per più lustri al lume delle stelle e sono sano e robusto.  Lo conduci tu a casa?  Dio ti benedica, Ruben.  Ecco il fanciullo.  Ti ha consolato il Maestro?  Sì.  Allora va', e sii felice.  Ma bisognerà dargli del cibo. E’ forse dal mattino che non mangia».
«Il Maestro gli ha dato del latte caldo e pane e frutta; li ha nella tunichella» dice Giovanni.
«Allora vai con quest'uomo.  Ti porta a casa coll'asino».
Finalmente la gente se ne è andata tutta, e Pietro può riposarsi insieme a Giacomo, Giuda, l'altro Giacomo e Tommaso, che lo hanno aiutato a mandare alle case i più ostinati.
«Chiudiamo.  Che non ci sia chi si pente e torna indietro, come quei due là.  Auf! Ma il giorno dopo il sabato è ben faticoso!», dice ancora Pietro entrando nella cucina e chiudendo la porta: «Oh! ora staremo in pace».
Guarda Gesù che è seduto presso la tavola, col gomito su essa e il capo sorretto dalla mano, pensieroso, astratto.  Gli va vicino, gli posa la mano sulla spalla e gli dice: «Sei stanco, eh!  Tanta gente!  Vengono da tutte le parti nonostante la stagione».
«Sembra che abbiano paura di perderci presto» osserva Andrea, che sta sventrando dei pesci.  Anche gli altri si danno da fare a preparare il fuoco per arrostirli, o a rimestare delle cicorie in un paiolo che bolle.  Le loro ombre si proiettano sulle pareti scure che il fuoco, più del lume, rischiara.
Pietro cerca una tazza per dare del latte a Gesù, che sembra molto stanco.  Ma non trova il latte e ne chiede conto agli altri.
«Lo ha bevuto il bambino l'ultimo latte che avevamo.  Il resto lo ebbe quel vecchio mendico e la donna dal marito infermo» spiega Bartolomeo.
«E il Maestro è rimasto senza!  Non dovevate dare tutto».
«Ha voluto così Lui ... ».
«Oh!  Lui vorrebbe sempre così.  Ma non si deve lasciarlo fare. Lui dà via le vesti, Lui dà via il suo latte, Lui dà via Se stesso e si consuma ... ». Pietro è malcontento.
«Buono, Pietro!  Dare è meglio che ricevere» dice Gesù quietamente uscendo dalla sua astrazione.
«Già!  E Tu dài, dài e ti consumi.  E più ti fai vedere disposto a tutte le generosità, e più gli uomini se ne approfittano».
E intanto, con delle foglie ruvide e sprigionanti un odore misto di mandorla amara e di crisantemo, struscia il tavolo, lo rende ben netto per deporvi sopra il pane, l'acqua, e mette una coppa davanti a Gesù.  Gesù si versa subito da bere come se avesse una grande sete.  Pietro mette un'altra coppa sull'altro lato del tavolo, presso un piatto con delle ulive e degli steli di finocchio selvatico.  Aggiunge il vassoio dei radicchi che Filippo ha già conditi, e insieme ai compagni porta degli sgabelli molto primitivi in aggiunta alle quattro sedie che sono nella cucina, insufficienti a tredici persone.
Andrea, che ha sorvegliato la cottura del pesce arrostito sulle braci, colloca il pesce su un altro piatto e con degli altri pani va verso la tavola.  Giovanni leva la lucerna dal luogo dove era e la mette in mezzo al tavolo.
Gesù si alza, mentre tutti si avvicinano alla tavola per la cena, e prega ad alta voce, offrendo il pane e benedicendo poi la mensa.  Si siede imitato dagli altri e distribuisce il pane e i pesci, ossia depone i pesci sulle forme basse e larghe del pane, in parte fresco, in parte stantio, che ognuno si è messo davanti.  Poi gli apostoli si servono dei radicchi usando del forchettone di legno infisso nei medesimi.  Anche per la verdura il pane fa da piatto.  Soltanto Gesù ha davanti un piatto di metallo largo e piuttosto malandato, e lo usa per dividere il pesce, dando ora a questo e ora a quello un boccone prelibato.  Sembra un padre fra i suoi figli, sempre padre anche se Natanaele, Simone Zelote e Filippo sembrano padri a Lui, e Matteo e Pietro possono parere suoi fratelli più anziani.

Mangiano e parlano degli avvenimenti del giorno, e Giovanni ride di gusto per lo sdegno di Pietro verso quel pastore dei monti di Galaad, che pretendeva che Gesù andasse lassù dove era il gregge per benedirlo e fargli guadagnare molto denaro per la dote da darsi alla figlia.

«C'è poco da ridere.  Finché ha detto: "Ho le pecore malate e se muoiono io sono rovinato", l'ho compatito. E’ come se a noi pescatori si tarlasse la barca.  Non si può più pescare e mangiare.  E di mangiare tutti si ha diritto.  Ma quando ha detto: "E le voglio sane perché voglio farmi ricco e sbalordire il paese per la dote che farò a Ester e per la casa che mi costruirò", allora mi sono fatto brutto.  Gli ho detto: "E per questo hai fatto tanta strada?  Non hai a cuore che la dote e le ricchezze e le pecore tu?  Non ci hai un'anima?".  Mi ha risposto: "Per quella c'è tempo.  Ora mi premono più le pecore e le nozze, perché è un buon partito ed Ester comincia a invecchiare".  Allora, ecco, se non era che mi ricordavo che Gesù dice che si deve essere misericordiosi con tutti, stava fresco l'uomo!  Gli ho parlato proprio fra tramontana e scirocco, ... ».

«E pareva che tu non avessi più a finire.  Non prendevi fiato.  Ti eran venute le vene del collo gonfie e sporgenti come due bastoni» dice Giacomo di Zebedeo.

«Era già via da un pezzo il pastore e tu continuavi a predicare.  Meno male che dici che non sai parlare alla gente!» aggiunge Tommaso.  E lo abbraccia dicendo: «Povero Simone!  Che grossa ira che ha preso!».
«Ma non avevo ragione forse?  Cosa è il Maestro?  Il facitor di fortune di tutti gli stolti di Israele?  Il paraninfo delle altrui nozze, forse?».
«Non ti inquietare, Simone.  Ti fa male il pesce se lo mangi con quel veleno» stuzzica bonario Matteo.
«Hai ragione.  Ci sento in tutto il sapore che hanno i banchetti in casa dei farisei, quando mi mangio pane con timore e carne con ira».
Ridono tutti.  Gesù sorride e tace.
Sono alla fine del pasto.  Sazi, soddisfatti di cibo e di calore, stanno, un poco imprigriti, intorno alla tavola.  Parlano anche meno, alcuni sonnecchiano.  Tommaso si diverte a disegnare col coltello un rametto di fiori sul legno del tavolo.
Li scuote la voce di Gesù che, disserrando le braccia che teneva conserte sull'orlo del tavolo e sporgendo le mani come fa il sacerdote quando dice "Dominus vobiscum", dice: «Eppure bisogna andare!».
«Dove, Maestro?  Da quello delle pecore?» chiede Pietro. «No, Simone.  Da Lazzaro.  Torniamo in Giudea». «Maestro, ricordati che i giudei ti odiano!» esclama Pietro. «Volevano lapidarti or non è molto» dice Giacomo d'Alfeo. «Ma, Maestro, questa è un'imprudenza!» esclama Matteo. «Non ti importa di noi?» chiede l'Iscariota.
«Oh!  Maestro e fratello mio, io te ne scongiuro in nome di tua Madre, e in nome anche della Divinità che è in Te, non permettere che i satana mettano le mani sulla tua persona, a strozza della tua parola.  Sei solo, troppo solo contro tutto un mondo che ti odia e che è, sulla terra, potente» dice il Taddeo.
«Maestro, tutela la tua vita!  Che sarebbe di me, di tutti, se non ti avessimo più?».  Giovanni, sconvolto, lo guarda con occhi dilatati di bambino spaventato e addolorato.
Pietro, dopo la prima esclamazione, si è voltato a parlare concitatamente con i più anziani e con Tommaso e Giacomo di Zebedeo.  Sono tutti del parere che Gesù non deve tornare presso Gerusalemme, almeno fintanto che il tempo pasquale non faccia più sicura la permanenza colà, perché, dicono, la presenza di un numero stragrande di seguaci del Maestro, venuti per le feste pasquali da ogni parte della Palestina, sarà una difesa per il Maestro.  Nessuno di quelli che lo odiano oserà toccarlo quando tutto un popolo sarà stretto intorno a Lui con amore... E glielo dicono, affannosamente, quasi prepotentemente... L'amore li fa parlare.
«Pace!  Pace!  Non è forse di dodici ore la giornata?  Se uno cammina di giorno non inciampa perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte inciampa perché non ci vede.  Io so quello che mi faccio, perché la Luce è in Me.  Voi lasciatevi guidare da chi ci vede.  E poi sappiate che, sinché non è l'ora delle tenebre, nulla di tenebroso potrà avvenire.  Quando poi sarà quell'ora, nessuna lontananza e nessuna forza, neppure le armate di Cesare, potranno salvarmi dai giudei.  Poiché ciò che è scritto deve avvenire, e le forze del male già operano in occulto per compiere la loro opera.  Perciò lasciatemi fare.  E fare del bene sinché sono libero di farlo.  Verrà l'ora in cui non potrò più muovere un dito né dire una parola per operare il miracolo.  Il mondo sarà vuoto della mia forza.  Ora tremenda di castigo per l'uomo.  Non per Me.  Per l'uomo che non mi avrà voluto amare.  Ora che si ripeterà, per volontà dell'uomo che avrà respinto la Divinità sino a far di sé un senza Dio, un seguace di Satana e del suo figlio maledetto.  Ora che verrà quando sarà prossima la fine di questo mondo.  La non-fede imperante renderà nulla la mia potenza di miracolo.  Non perché Io la possa perdere.  Ma perché il miracolo non può essere concesso là dove non è fede e volontà di ottenerlo, là dove del miracolo si farebbe un oggetto di scherno e uno strumento di male, usando il bene avuto per fare un maggior male.  Ora posso ancora fare il miracolo, e farlo per dare gloria a Dio. Andiamo, dunque, dal nostro amico Lazzaro che dorme.  Andiamo a svegliarlo da questo sonno, perché sia fresco e pronto a servire il suo Maestro».
«Ma se dorme è bene.  Finirà di guarire.  Il sonno è già un rimedio.  Perché svegliarlo?» gli osservano.
«Lazzaro è morto.  Ho atteso che fosse morto per andare là, non per le sorelle e per lui.  Ma per voi.  Perché crediate.  Perché cresciate nella fede.  Andiamo da Lazzaro».
«E va bene!  Andiamo pure!  Moriremo tutti come è morto lui e come Tu vuoi morire» dice Tommaso, rassegnato fatalista.
«Tommaso, Tommaso, e voi tutti che nell'interno avete critiche e brontolii, sappiate che chi vuol seguire Me deve avere per la sua vita la stessa cura che ha l'uccello per la nuvola che passa. Lasciarla passare a seconda che il vento la porta.  Il vento è la volontà di Dio, il quale può darvi o levarvi la vita a suo piacere, né voi ve ne avete a rammaricare, come non se ne rammarica l'uccello della nube che passa, ma canta ugualmente, sicuro che dopo tornerà il sereno.  Perché la nuvola è l'incidente, il cielo è la realtà.  Il cielo resta sempre azzurro anche se le nuvole sembrano farlo grigio. E’ e resta azzurro oltre le nubi.  Così è della Vita vera.  E’ e resta, anche se la vita umana cade.  Chi vuole seguirmi non deve conoscere ansia della vita e paura per la vita.  Vi mostrerò come si conquista il Cielo.  Ma come potrete imitarmi se avete paura di venire in Giudea, voi a cui nulla sarà fatto di male, ora?  Avete scrupolo a mostrarvi con Me?  Siete liberi di abbandonarmi.  Ma, se volete restare, dovete imparare a sfidare il mondo con le sue critiche, le sue insidie, le sue derisioni, i suoi tormenti, per conquistare il Regno mio. Andiamo, dunque, a trarre da morte Lazzaro che dorme da due giorni nel sepolcro, essendo morto la sera che venne qui il servo da Betania.  Domani all'ora di sesta, dopo aver licenziato chi attende il domani per avere da Me ristoro e premio alla sua fede, partiremo di qui e passeremo il fiume, sostando la notte in casa di Niche.  Poi all'aurora partiremo per Betania, facendo la strada che passa per Ensemes.  Saremo a Betania avanti sesta.  E vi sarà molta gente.  Ed i cuori resteranno scossi.  L'ho promesso e lo mantengo ... ».
«A chi, Signore?» chiede quasi timoroso Giacomo d'Alfeo.
«A chi mi odia e a chi mi ama, ambedue in maniera assoluta.  Non ricordate la disputa a Cédès con gli scribi?  Potevano ancora dirmi mendace per avere risuscitato una fanciulla appena morta e uno morto da un giorno.  Hanno detto: 'Ancor non hai saputo ricomporre uno sfatto".  Infatti soltanto Iddio può dal fango trarre un uomo e dalla putredine rifare un corpo intatto e vivente.  Ebbene, lo lo farò.  Alla luna di casleu, alle sponde del Giordano, ho ricordato Io stesso agli scribi questa sfida e ho detto: 'Alla nuova luna si compirà'.  Questo per chi mi odia.  Alle sorelle, poi, che mi amano in maniera assoluta, ho promesso di premiare la loro fede se esse avessero continuato a sperare contro il credibile.  Le ho molto provate e molto afflitte, e lo solo conosco le sofferenze dei loro cuori in questi giorni e il loro perfetto amore.  In verità vi dico che meritano gran premio perché, più che del non vedere risorto il fratello, si angosciano che lo possa essere schernito.  Vi parevo assorto, stanco e triste.  Ero presso di loro col mio spirito e sentivo i loro gemiti e numeravo le loro lacrime.  Povere sorelle!  Ora lo ardo di ricondurre un giusto sulla terra, un fratello fra le braccia delle sorelle, un discepolo fra i miei discepoli.  Tu piangi, Simone?  Sì.  Tu e lo siamo i più grandi amici di Lazzaro, e nel tuo pianto è il dolore per il dolore di Marta e Maria e l'agonia dell'amico, ma è anche già la gioia di saperlo presto reso al nostro amore.  "Alziamoci, per preparare le sacche e andare al riposo per alzarci all'alba e riordinare qui dove... non è sicuro il ritorno.  Bisognerà distribuire ai poveri quanto abbiamo e dire ai più attivi di trattenere i pellegrini dal cercarmi sinché non sarò in altro luogo sicuro.  Bisognerà ancora dire loro di avvisare i discepoli che mi cerchino presso Lazzaro. Tante cose da fare.  Saranno tutte fatte prima che giungano i pellegrini... Su.  Spegnete il fuoco e accendete i lumi e ognuno vada a fare ciò che deve e al riposo.  La pace a voi tutti».
Si alza.  Benedice e si ritira nella sua stanzetta...
«E’ morto da più giorni!» dice lo Zelote.
«Questo è un miracolo!» esclama Tommaso.
«Voglio vedere cosa trovano poi per dubitare!» dice Andrea.
«Ma quando è venuto il servo?» chiede Giuda Iscariota.
«La sera avanti il venerdì» risponde Pietro.
«Sì?  E perché non lo hai detto?» chiede ancora l'Iscariota.
«Perché il Maestro mi aveva detto di tacere» ribatte Pietro.
«Dunque... quando noi si arriva là... sarà da quattro dì nel sepolcro?».
«Certo, eh!  Sera di venerdi un giorno, sera del sabato due giorni, questa sera tre giorni, domani quattro... Quattro dì e mezzo, dunque... Potenza eterna!  Ma sarà già in pezzi!» dice Matteo.
«Sarà già in pezzi... Voglio vedere anche questo e poi ... ».
«Che, Simon Pietro?» chiede Giacomo d'Alfeo.
«E poi, se Israele non si converte, neppure Jeovè fra i fulmini lo può convertire».
Se ne vanno parlando così.