(Suor Beghe – ‘La Passione del Signore riferita da Lui’ – Edizioni Segno)

1. Sondando il mistero

 

1. Sondando il mistero: un Arcangelo che si ‘materializza’

1.1 - Le bollette telefoniche e… la bella giapponesina

 

É una giornata di primo autunno, un autunno di campagna.
Una nebbiolina sottile infiltra l’aria, umida di pioggia, mentre gli alberi sembrano emergere con le loro chiome scure da una cortina chiara.
Sono qui, seduto di fronte al mio computer mentre cerco invano un modo più intelligente di iniziare il mio nuovo libro, questo che state leggendo. Laggiù, in fondo al salone, vedo le fiamme della stufa a caminetto che guizzano con un brontolio sordo di legna che arde e scoppietta.
Sono le 11 del mattino di un 7 ottobre del 2000, giorno della Madonna del Rosario.
‘Inizierai a scrivere il tuo nuovo libro il 7 ottobre, Festa della Madonna del Rosario…’, così mi aveva detto – un mese prima - una mia ‘vocetta’ interiore.
A dir la verità io non ho mai avuto troppa dimestichezza né con la Madonna né con il Rosario, e chi ha letto il mio precedente volume, del quale questo è il seguito, lo sa bene.
Ma da un pò di mesi mi sto sforzando, e devo dirvi che non mi trovo male.
Dovendo ‘tener d’occhio’ – nei suoi continui ‘andirivieni’ - la ‘mamma’ 93enne (cioè la mamma di mia moglie con la quale divido in splendida solitudine le mie giornate campagnole in attesa che la sera tutta la famiglia sia al completo: ‘mamma’, moglie e figlio, nonché figlia e genero, nipotini compresi, che abitano nella casa accanto) mi sono trasferito - per scrivere - dal mio luogo abituale, che è lassù in cima nel mio studio in ‘torretta’, a questo mio secondo ‘studio’ al piano terra.
E’ ricavato in un angolo del salone, dove – da dietro una piccola scrivania – tengo sotto controllo la ‘mamma’ che cuce, traffica sempre indaffarata e cucina, mentre io, nel mio angolo, cerco di coesistere e sopravvivere in competizione di spazio con il mio computer e con la stampante, ma dove la luce rosata di un abat-jour crea, con la stufa che scoppietta laggiù in fondo, un clima di intimità con un profumo di legna ed un tepore che tonifica il cuore.
Stamattina, alle sei, ero in piedi per il rituale caffè che porto alla mogliettina insonnolita e a quel dormiglione di mio figlio il quale, anche se nella casa accanto avrebbe pronto il suo appartamento, sembra trovi più gradevole (lui dice che si trova bene con noi ma io - vilmente - in realtà sospetto trattarsi di più prosaiche e solide ragioni: come vettovagliamento, corrente elettrica e riscaldamento) continuare a convivere sotto lo stesso tetto dei ‘vecchi’, se non altro perché le telefonate in Giappone (me le ero dimenticate!) pare costino meno.
Quella delle bollette telefoniche stenta ad andarmi giù: tutta colpa di quella ‘giapponesina’!
Era cominciata quasi per scherzo.
Una sera, tre anni fa, tornato a casa dal lavoro, il ‘ragazzo’ mi aveva detto, a cena, come se mi stesse chiedendo per favore un bicchier d’acqua: ‘Cosa ne direste se mi dimettessi dal lavoro e – come tu, papà volevi farmi fare tre anni fa prima che cominciassi a lavorare – andassi ora in America a studiare bene l'inglese? Sai, papà, mi sono accorto che avevi proprio ragione tu quando volevi mandarmi all'estero prima di cercare un lavoro. Dove lavoro ora mi trovo bene, è come una famiglia, ma capisco che senza una buona padronanza delle lingue ‘parlate’ ad un certo punto mi troverei bloccato. Che ne dici?

‘Che ne dico?’…
Per poco non ingoiavo il cucchiaio della minestra.
Il ‘bello’ di mio figlio (perché quanto al resto, anche se dicono che mi somigli, in fatto di bellezza è meglio lasciar perdere, però le ragazze dicono che fa tanta tenerezza) è che ti propone certe cose come se fosse lui a farti un piacere, come se fosse lui a darti ragione.
Con l'espressione impenetrabile di un giocatore di poker – voi direste invece ‘con una faccia impietrita’ - faccio un rapido calcolo mentale e in settedecimidisecondo valuto in termini economici la perdita del suo lavoro ‘sicuro’, la spesa per mantenerlo un sacco di tempo all'estero, il costo del mantenerlo al suo rientro prima che ritrovi un posto altrettanto ‘sicuro’, perché quella del posto ‘sicuro’ credo sia un po’ una fissa di tutti noi genitori, e infine concludo che la cifra – di riffa e di raffa – supererebbe largamente le mie possibilità.
Ma siccome sono un tipo riflessivo e cerco di ‘convertirmi’, non dò in escandescenze, prendo tempo e – poiché mia moglie i calcoli li sa fare molto meglio – gli dico che dobbiamo pensarci sopra un momento.
E il giorno dopo, poiché mia moglie sa far bene i calcoli ma al cuor non si comanda, gli accendiamo il disco verde e dopo un mese lui parte per un lungo ‘tour’ che prevede prima Stati Uniti, poi Inghilterra ed infine Francia.
Dopo sei mesi rientra in Italia dal primo giro di boa e… sorpresa, ci racconta che - giusto una ventina di giorni prima del rientro da Boston -aveva conosciuto e, quel che è peggio, si era innamorato di una giapponesina di Tokio, anche lei in tour di studio negli States per quattro anni.
Quando – sbarcato lui dall’aereo – io lo vengo a sapere poco manca che mi prenda un accidente, ma siccome – come avevo detto prima – al cuor non si comanda, mi dico anche che è inutile dissuaderlo, e tanto vale collaborare, sperando egoisticamente che lei cambi idea.
Voi direte che tutt’al più rischio che si trasferisca definitivamente in America o in Giappone, ed è proprio questo il punto: questo è un trauma per uno come me che ha l’istinto della famiglia patriarcale, che avrebbe sempre bisogno di un aiuto-giardiniere e che ai due figli – per esser sicuro di averli entrambi vicini – gli ha costruito una casa proprio a fianco.
Siccome però il ragazzo è saggio, riesco a convincerlo a non tornarsene subito in America (come voleva fare senza essersi praticamente neanche cambiato d’abito) ma ad aspettare un mesetto per sapere se dopo quel periodo lei l'avesse ‘amato’ ancora. E se lei proprio non se ne fosse nel frattempo stancata, prendesse lui pure un aereo – tanto pago io - da Londra, andasse a Boston, si spiegasse e le chiedesse se lei faceva proprio sul serio al punto di volerlo sposare e magari venire anche a vivere in Italia.
E se fosse stato proprio così, se non sarebbe stato anche meglio che prima completassero entrambi il loro rispettivo programma di studi, visto che lei doveva studiare ancora per quattro anni.
‘Intanto la lontananza rafforza l'amore e lo tempra – dico falsamente a mio figlio che però non mi crede - e se sarà vero amore sposatevi, e se avrete problemi noi vi daremo in qualche modo una mano, se verrete in Italia, nella casa accanto’. E qui mi crede.
A distanza di quasi tre anni non ho ancora ben capito se sarà vero amore, ma in compenso le telefonate a Boston (dove ‘lei’ studia tutto l'anno) o a Tokio (dove lei ritorna in vacanza due volte l'anno) costano un sacco di soldi, a parte i viaggi che lei fa in Italia da Boston e Tokio, ogni sei mesi circa, e quelli che lui fa dall'Italia a Boston e Tokio, ogni sei mesi circa.
Insomma mediamente si vedono ogni tre mesi – pagano loro - ma al telefono si sentono quasi ogni giorno, e qui pago io.
Ora però lui ha scoperto che con il ‘fax’ costa meno e quello che si dicono, se non avrà il calore della voce, per lo meno rimane scritto, se lo possono mettere sotto il cuscino e ci possono sognare sopra.
Infine, ultimo ritrovato della tecnologia, i due hanno scoperto che con il computer e via Internet si possono parlare quando e soprattutto quanto vogliono al costo di una telefonata urbana. Roba da non crederci.
Ma quando la sera vedo che lui si appropria del mio computer (quello sul quale scrivo i miei libri e del quale sono geloso perché temo sempre che mi schiacci prima o poi il tasto sbagliato e mi cancelli dalla ‘memoria’ tutto il mio lavoro) e rimane delle ore a scrivere, mi domando se ci si potrà mai fidare della Telecom, visto che al momento le azioni sono scese, e penso con ansia alla prossima bolletta.
Ecco perché – come dicevo all'inizio – mi preoccupano tanto le bollette telefoniche.

1.2 - Il Libro di Tobia e l’Angelo Azaria

Mio fratello, partito da pochi giorni dopo avermi aiutato nella vendemmia, mi ha lasciato un sacchetto delle ‘sue’ castagne, che vengono nientemeno che dal Monte Cimino, nel viterbese.
Le metterò ad arrostire sulla stufa di ghisa, e così ora sgranocchierò le ‘caldarroste’ in attesa che mi venga questa benedetta ‘ispirazione’.
Niente, non c’è verso!
Eppure la mia voce interiore mi aveva detto proprio così: ‘inizierai il 7 ottobre…’.
Sta a vedere che mi devo arrangiare da solo. Non sarebbe la prima volta.
Ci credete agli angeli, voi? E agli angeli custodi?
A questo riguardo nei giorni scorsi mi sono letto il Libro di Tobia, quello del Vecchio Testamento.
Per certi versi ha la stessa ‘filosofia’ del Libro di Giobbe, quello di cui vi avevo parlato ne ‘Alla scoperta del Paradiso perduto, ovvero il Dio interiore’, primo volume.
Filosofia che si può condensare così: il dolore purifica, Dio ci prova perché ci ama, ma alla fine ripaga sempre, o di qua o ‘di là’.
Splendido – mi dico - peccato però che spesso Egli ‘ripaghi’ di là.
Ma a Tobia, come a Giobbe, è andata bene, anche di qua.
Tobia era un ‘giusto’, un ebreo deportato schiavo a Ninive insieme a tanti altri e costretto a vivere in terra straniera sognando il ritorno in patria.
Egli rispettava la ‘Legge’ e rendeva onore a Dio che gli fece trovare grazia di fronte al Re Salmanassar il quale gli diede il permesso di andare dovunque volesse e fare tutto quello che gli piaceva.
E fra le cose che gli piacevano vi era l’abitudine – suppongo per spirito di pietà – di seppellire i morti che in quell’epoca selvaggia non era difficile ‘incontrare’ per strada a seguito delle persecuzioni razziali scatenate dal Re Sennacherib tornato fuggitivo dalla Giudea dove – come precisa il sacro testo - era stato ‘percosso dal flagello di Dio a causa della sua bestemmia’.
Quando Sennacherib la seppe, questa storia della sepoltura nascosta dei morti, si arrabbiò, ordinò che Tobia venisse ucciso e ne confiscò le sostanze.
Ma Tobia fuggì con moglie e figlio, venne nascosto da alcuni che gli erano riconoscenti per il bene che lui aveva loro fatto e dopo appena quarantacinque giorni poté tornarsene a casa e tornare in possesso dei suoi beni, perché Sennacherib era stato nel frattempo ucciso dai suoi figli.
Meglio perderli che trovarli, dei figli così. Ma allora si usava…, e anche adesso, stando a quel che si legge sui giornali.
Per farla breve – perché magari la storia intera ve la racconterò nei particolari e meglio un’altra volta – Tobia aveva un figlio unico, anch’egli di nome Tobia, allevato a regola d’arte, insomma uno stinco di santo…
Un giorno il padre, sdraiandosi e accingendosi a fare un pisolino all’ombra lungo il muro di casa sua, alza gli occhi al cielo, verso il tetto, e viene colpito agli occhi dalla caduta di un escremento di rondine, rimanendo cieco, inabile al lavoro e cadendo quindi in miseria.
Egli soffre, piange, implora il Signore che lo tolga da questo mondo.
Pensando di essere stato ascoltato, Tobia chiama il figlio e – in previsione della sua prossima morte - gli lascia il suo testamento spirituale, informandolo però che dovrà andare intanto a farsi rimborsare da un suo vecchio amico, che abita in una città lontana, un prestito ingente che egli gli aveva fatto tanti anni prima e del quale conservava ancora ricevuta.
Il viaggio è lungo e pericoloso ma Tobia parte affidandosi ad un altro giovane che incontra casualmente ma che dichiara di essere un perfetto conoscitore non solo dell’itinerario ma anche della città di destinazione e dello stesso debitore della somma.
Meglio di così…
I due partono dunque insieme al cane, che li segue scodinzolando.
L’amico si rivela provvidenziale perché prima salva la vita a Tobia da un grosso pesce vorace che lo aveva aggredito mentre faceva il bagno in un fiume, poi gli prospetta l’opportunità – cammin facendo - di pernottare in casa di un certo Raguele (altro ebreo in esilio ma ricco sfondato) e, ma glielo dice con eleganza, di fare il ‘filo’ a Sara (la bellissima figlia unica di Raguele) la quale – sempre grazie ai buoni uffizi dell’amico – viene poi concessa in sposa a Tobia con in dote gli averi del padre, o meglio il 50% subito e il saldo… all'eredità.
La figliola – mi dico - doveva essere veramente bella se aveva avuto già sette mariti, ma doveva avere qualche piccolo difetto, se li aveva messi nella tomba uno dopo l'altro.
E infatti si viene a sapere che la bella era una ‘posseduta’ e aveva dentro di sé un demone che – probabilmente per gelosia – la prima notte faceva fuori i mariti, prima che le nozze venissero consumate.
Vi lascio dire lo shock! Sette volte!
Ma Tobia invece, ancora una volta grazie all’amico e in barba al demonio, la fa franca – ora non vi racconto come – e fa ritorno alla casa natìa pieno di soldi (quelli della moglie e quelli del debitore del padre che glieli aveva restituiti senza fiatare) e di armenti e servi.
E al ritorno, appena abbracciato il padre cieco, Tobia jr. – sempre su consiglio del provvidenziale amico – spalma sugli occhi del padre un impiastro ricavato dal fiele del famoso pesce del fiume, che era stato ucciso, ed il padre riacquista finalmente la vista.
I due Tobia non sanno come ringraziare il giovane amico, rivelatosi guida preziosa e consigliere ammirevole, e vorrebbero dargli la metà di tutti i loro nuovi beni.
Ma l’amico li invita invece a benedire il Signore per tutto quello che hanno ricevuto, perché è Dio che ha usato loro misericordia perché - quando Tobia seppelliva i morti, pregava il Signore, digiunava e faceva la carità ai poveri – egli, l'amico, ‘presentava’ le sue azioni al Signore.
E, poiché Tobia padre era caro al Signore, Questi decise di metterlo alla prova consentendone la cecità e la miseria, ma mandandogli anche in suo aiuto lui, il giovane amico del figlio, che in realtà non si chiama Azaria – nome con il quale si era loro presentato – ma ‘Raffaele l'Arcangelo: uno dei sette che stanno dinanzi al trono del Signore’.(Ap)
Ciò detto l'Arcangelo – e già me lo vedo davanti, bellissimo, che s’illumina tutto e si trasfigura – scompare nel nulla lasciandoli commossi e piangenti.
I due Tobia, con una schiera di figli e nipotini, vissero felici, contenti e ricchi – nell'Aldiqua - fino alla fine di una vita centenaria.

La storia di Tobia, a dir la verità non è una fiaba e neanche una storia meramente didattica, ma anzi un fatto realmente accaduto denso di sfumature ed insegnamenti spirituali importantissimi, e ve l’ho raccontata perché è anche la storia del prezioso aiuto che possono fornire gli angeli, specie quelli custodi, che ci seguono come ombre e ci parlano continuamente, solo che imparassimo ad ascoltarli facendo silenzio interiore.